Una grande busta di riso come base, dei pezzi di legno e una corda: materiali semplici per sostenere una culla sospesa come la vita del bambino stesso che ci dorme dentro. È questa la prima immagine che vedo entrando nel rifugio di una giovane coppia in uno dei nuovi insediamenti di rifugiati Rohingya in Bangladesh: una culla sospesa, metafora perfetta per ritrarre la condizione in cui vivono migliaia di bambini Rohingya in Bangladesh. Stando alle più recenti stime UNICEF, sono infatti oltre 520mila i bambini intrappolati nella precarietà dei campi profughi e degli insediamenti di fortuna che si sono moltiplicati per far fronte all’esodo in massa dopo le violenze del 25 agosto 2017. Apolidi e estremamente vulnerabili, pagano il prezzo più alto di questa ennesima crisi umanitaria, vivendo una vita di stenti ed emarginazione che li segna emotivamente e praticamente in quanto si traduce, fra l’altro, nella quasi totale mancanza di scolarizzazione.

Entrando in questo rifugio, per un momento mi sembra di tornare indietro nel tempo. Mi tornano in mente i racconti del dopoguerra di quando da noi le culle si appendevano al soffitto e quelli di mia nonna che rivestiva di bambagia le finestre per tenere al caldo mio padre nato settimino. D’improvviso è come essere a casa. Ma la sensazione più commuovente è sentirmi circondata dall’amore di questa giovane coppia che con la sua dignità e semplicità disarmante mi apre le porte della propria casa come fossi una parente o una amica passata a trovarli.

In quel momento mi ricordo che a breve sarà San Valentino, la festa degli innamorati che rinnovano reciproche promesse e si scambiano pensieri d’amore. Penso a mio marito, a nostra figlia, alla nostra casa dove ci incontriamo alla fine di ogni viaggio che ci tiene lontani e non vedo l’ora di essere insieme a loro. Ma con quella coppia di Rohingya di fronte a me percepisco anche un altro tipo di amore: un amore che supera la coppia e la famiglia, un amore che include il proprio compagno di vita e gli eventuali figli per arrivare ad abbracciare l’umanità intera.

La coppia di Rohingya che ha aperto le porte della propria dimora durante una mia visita nel campo dove vivono

Nel calore di una piccola casa di plastica e bambù penso ai gesti che ci rendono veramente umani e che moltiplicano l’amore invece di dividerlo: penso a quando eravamo in mare ad assistere imbarcazioni in difficoltà e alle persone che ora ricevono la nostra assistenza medica grazie a due Aid Station aperte a Shamlapur e Unchiprang, in Bangladesh, con la nostra missione in sud-est asiatico. Mentre osservo questa famiglia sopravvissuta a un terribile viaggio e abituata a stenti e privazioni, realizzo come molte delle cose che riteniamo indispensabili in verità si rivelino superflue per chi ha visto la morte in faccia.

Nel giorno di San Valentino desidero lanciare un messaggio di Amore universale che oltrepassi la dimensione privata per coinvolgere chiunque abiti questo pianeta. Desidero invitare a riflettere che la parole Amore non è solo un fatto privato che si limita alla coppia o alla famiglia, ma è un sentimento così immediato e puro che ci unisce tutti e tutte. Nell’incontro con l’Altro, nell’assistenza al fratello e alla sorella in difficoltà, nella misericordia verso i vulnerabili e i dimenticati troviamo il senso profondo dell’amore stesso e riscopriamo l’umanità necessaria per aprire il nostro cuore all’ascolto, alla comprensione e dunque all’accoglienza. Di tutto ciò troviamo traccia tangibile nei 7800 pazienti cui abbiamo garantito cure mediche nel solo mese di gennaio grazie alle nostre due Aid Station in Bangladesh.

Buon San Valentino a tutti!