Ho incontrato Ramez sulla nave Phoenix dopo esser stato salvato durante salvataggi multipli dalle acque del mare e sono rimasta subito colpita dal suo aspetto. Aveva un’aria da intellettuale col suo zainetto e gli occhiali spessi. Dietro il suo sorriso e la sua voglia di essere d’aiuto a bordo, mascherava le tante perdite e sofferenze inflitte dalla guerra alla sua giovane vita.

Ha 26 anni e viene da Damasco, ma ha dovuto lasciare il suo paese a causa della guerra civile che lo devasta dal 2011. Quando sono scoppiati i disordini, Ramez andava all’università come molti suoi coetanei in ogni parte del mondo. Studiava, frequentava le lezioni, usciva con amici o colleghi e si presentava per sostenere gli esami in attesa di quella laurea che gli avrebbe permesso di trovare un buon posto di lavoro e costruirsi una vita dignitosa. E intanto sperava che la guerra finisse il prima possibile.

La sua famiglia era molto unita e le loro vite scorrevano tranquille. “Normali”, racconta lui riferendosi alla pace. Ad un tratto la pace ha smesso di essere la protagonista delle loro vite normali, lasciando il posto alla guerra. Le loro vite, la loro routine si sono riempite del suono minaccioso degli spari, delle bombe sganciate senza sapere chi avrebbero colpito, delle urla dei feriti e dei pianti dei sopravvissuti che scavano fra le macerie. Allora, “normale” è diventata la guerra, la paura, l’odore della morte e i cecchini appostati per seminare il terrore.

Ramez è qualche anno più grande di mia figlia, ma i suoi occhi hanno visto orrori che gli hanno tolto ogni ingenuità. A bordo della Phoenix, dopo il salvataggio e le cure mediche per i casi più urgenti, si cerca sempre di conoscere i nostri ospiti per comprendere meglio il loro trascorso. Dal racconto di questo giovane siriano emergono lo spettro dell’arruolamento obbligatorio, causa dell’esodo di moltissimi ragazzi che non vogliono imbracciare le armi dopo aver riposto i libri universitari, e le ferite nascoste della guerra.

Racconta di aver perso oltre 30 persone fra parenti ed amici, cui si sommano colleghi dell’università deceduti sotto i bombardamenti. Perché le bombe cadevano ovunque e in qualunque momento anche dentro le aule dell’università dove si è ritrovato protagonista silente di un attacco, tanto che a un certo punto sua madre evitava di svegliarlo per paura di perderlo in facoltà. Per lei era più importante che suo figlio rimanesse in vita, piuttosto che studiasse per una laurea che comunque non gli sarebbe servita a trovare lavoro in quel paese allo stremo. Dopo essersi laureato, ha toccato con mano l’impossibilità di avere un futuro in Siria dato che il conflitto aveva annullato ogni chance di trovare lavoro.

Nel frattempo le perdite di persone care aumentavano e con esse la paura di instaurare qualsiasi rapporto umano nel timore che poco dopo quella persona sarebbe morta. Una volta finita l’università, iniziò ad avere le stesse paure che la madre aveva avuto per lui e così cominciò ad impedirle di allontanarsi da casa per timore che non sarebbe più tornata. Inoltre, la situazione generale peggiorava e andar via dalla Siria era sempre più difficile perché nessun paese arabo era più disposto a concedere il visto necessario all’ingresso.

Ramez non solo scopre di essere vittima di una guerra che non ha scelto, ma di essere sgradito nella maggior parte paesi, tranne il Sudan. Ed è lì che va per rimanere 9 mesi prima di iniziare il terribile viaggio in mano ai trafficanti di esseri umani attraverso il deserto, le prigioni libiche ed il mare. Una volta salito a bordo della nave del MOAS, ha iniziato il suo percorso per ricostruire una nuova vita in pace lontano dai bombardamenti.

La guerra civile siriana è responsabile non solo di un numero senza precedenti di sfollati interni e rifugiati che cercano riparo nei paesi vicini e in Europa, ma anche di moltissimi decessi e ferite su corpi segnati dalla tortura e dalle nefaste conseguenze del conflitto. Tuttavia, un aspetto poco documentato riguarda le ferite invisibili a livello psicologico ed emotivo che colpiscono indistintamente bambini e adulti e si manifestano in modi diversi. I principali disturbi sono, infatti, legati al sonno. Soprattutto i bambini raccontano di incubi e difficoltà a dormire la notte, ma anche gli adulti sperimentano le stesse difficoltà legate all’ansia di dover gestire un’esistenza così precaria e diversa dalla vita precedente. Da un punto di vista clinico, si parla di Disturbo da Stress Post-Traumatico che viene particolarmente aggravato dal fatto che scaturisca da episodi di violenza estrema o tortura. Il dato allarmante, infine, riguarda la persistenza degli effetti del trauma anche una volta cessata la situazione che lo crea: anche dopo aver lasciato il paese ed essersi sottratti al rischio della tortura, lo spettro della violenza non abbandona chi l’ha vissuta. Se a questo aggiungiamo le catastrofiche condizioni di vita in campi profughi sovraffollati o centri d’accoglienza disorganizzati, è facile comprendere che occorre agire immediatamente per evitare danni e ferite ancora più gravi, puntando fra l’altro sulla restituzione della dignità e della speranza al popolo siriano.

Mi unisco, quindi, all’appello di pace di Ramez affinché “le guerre finiscano in tutto il mondo perché rappresentano la prima ed ultima distruzione delle persone, dell’umanità, del futuro”.

*Il nome del ragazzo è stato cambiato per proteggerne la privacy

La versione originale è stata pubblicata in inglese da Tomson Reuters Foundation

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