Confinati in casa a causa della diffusione della pandemia, ci apprestiamo a celebrare per il secondo anno la Santa Pasqua in lockdown, e non possiamo non riflettere su come la nostra vita sia cambiata e su tutto ciò che è avvenuto in un’area, come il Mar Mediterraneo, mentre eravamo impegnati a combattere con nuove e inimmaginabili sfide che hanno travolto le nostre società.

Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio del 2020 oltre 400 persone provenienti dalla Libia vengono soccorse al largo di Malta. A causa della decisione, condivisa dalla maggior parte dei Paesi europei, di chiudere i porti a causa della pandemia di Covid19, le persone migranti, dopo esser state salvate, resteranno per cinque settimane stipate su due imbarcazione turistiche appartenenti alla compagnia “Captain Morgan”. Un trattenimento illegittimo che si conclude soltanto a seguito della rivolta scoppiata su una delle due imbarcazioni, quando ormai le persone migranti esauste e senza forze, psicologicamente e fisicamente provate, vengono finalmente fatte sbarcare a Malta.

Passano circa due mesi quando, in una giornata in cui nel Mediterraneo le onde raggiungono i sette metri di altezza, un gommone con 52 persone a bordo è in avaria e in balia del mare. Un mercantile battente bandiera libanese, il Talia, appena ripartito dalla Libia per un trasporto di animali, interviene e salva le persone che su quel gommone si trovano ormai in condizioni disperate.

Dopo quattro giorni trascorsi sull’imbarcazione, ancora sporca per la permanenza del bestiame, quasi senza cibo e acqua, il centro di coordinamento di ricerca e soccorso di Malta finalmente autorizza lo sbarco delle persone trattenute a bordo.

A scendere tra le braccia del comandante della nave c’è Brhane, immortalati insieme in uno scatto rinominato “la Pietà del Mediterraneo”, un giovane diciannovenne in evidente stato confusionale e di malnutrizione.  Fuggito dall’Eritrea, dopo aver attraversato il Sudan, è stato catturato e portato in Libia dai trafficanti in un lager in cui ha perso tre amici, che per lui erano dei fratelli, morti dopo aver subito quelle torture che oggi sono visibili sulle gambe e sui piedi del ragazzo.

“Non avevo soldi e chi arriva in Libia e non ha soldi viene venduto come schiavo. Sono stato venduto due volte e trattato peggio di un animale. Nelle due prigioni dove sono stato mi torturavano, ci tenevano a testa in giù con le caviglie legate e ci picchiavano con il bastone e con la coda del fucile sulle gambe. Non ho mangiato per 11 giorni. E oggi quando vedo del cibo ho paura, perché quando ci davano da mangiare pasta-maccheroni subito dopo ci picchiavano”. Questa è la storia che ci racconta tra le lacrime quando, con il progetto di assistenza in ospedale offerto da MOAS per le persone migranti che vengono ricoverate d’urgenza dopo il salvataggio, andiamo a trovarlo presso il Mater Dei Hospital di Malta.

Questi sono soltanto due dei tanti, troppi avvenimenti che hanno segnato il Mediterraneo nell’ultimo anno, legati da un filo comune: il rapporto tra il Covid19 e i flussi migratori provenienti dall’Africa.

L’improvvisa diffusione mondiale della pandemia ha avuto un forte impatto sulle persone migranti nel Mediterraneo, in Europa e in Africa, nonostante sui media non se ne parli affatto. All’interno di questo scenario dovremmo interrogarci sulla loro condizione e su come un gesto semplice possa fare la differenza per farle sentire accolte e meno sole.

Negli Stati Europei la questione migratoria è stata prima affrontata in termini di minaccia per la salute pubblica, per poi sparire, successivamente, in una scena politica e in un dibattito pubblico concentrato esclusivamente sulla questione della pandemia, nonostante le situazioni drammatiche che si sono venute a creare ai confini marittimi e terrestri dell’Unione, dove centinaia di persone sono rimaste bloccate sulle imbarcazioni nel Mediterraneo o tra il gelo dei Balcani.

L’emergenza ha incrementato e messo in rilievo alcune questioni come il sovraffollamento delle strutture di accoglienza, dove è impossibile rispettare le misure di prevenzione per la diffusione del Covid19, la mancanza di assistenza medica per le persone migranti presenti sul territorio, soprattutto per coloro i quali si trovano in uno stato di “invisibilità”, la precarietà lavorativa, spesso dettata dalla forte diffusione del lavoro irregolare, e la difficoltà di seguire l’insegnamento a distanza per i bambini e i ragazzi che non hanno a disposizione un computer. Una situazione che svela la necessità di sviluppare un sistema che, al di là della situazione pandemica, dopo lo sbarco continui a prendersi cura delle persone migranti affinché, una volta giunte sul territorio europeo, non vengono “abbandonate”.

Anche in Africa si aggiungono nuove difficoltà, in primis il sovraffollamento nei campi che ospitano rifugiati e richiedenti asilo, in Sudan, Uganda, Etiopia, Burkina Faso e nel Chad, le sospensioni temporanee dei reinsediamenti nei Paesi terzi e la chiusura delle frontiere di alcuni Stati africani.

Un discorso a parte, ovviamente, meriterebbero gli orrori che si consumano in Libia ai quali si unisce la minaccia del Covid19.

All’interno di questo scenario è necessario attivare dei canali migratori sicuri e legali per garantire a ogni essere umano di vivere una vita libera da persecuzioni, torture e minacce, secondo i più basilari diritti umani contenuti nelle dichiarazioni internazionali di cui i Paesi europei sono firmatari. Nessuno merita di morire in mare ed è nostro dovere dare la possibilità a queste persone disperate di raggiungere in maniera regolare un Paese sicuro, senza mettere la propria vita in mano ai trafficanti di uomini.

In occasione della Santa Pasqua, stringendoci nella speranza della rinascita, dedico il mio pensiero a tutti coloro che sono costretti a lasciare tutto e a scappare alla ricerca di una vita più serena e a chi, nella nostra comunità, riesce a mettersi nei panni dell’altro e si impegna affinché si possa vivere dignitosamente al di fuori di ogni logica legata a confini e muri.

Buona Pasqua!