Regina Catrambone, co-fondatrice e direttrice del MOAS – Migrant Offshore Aid Station, la prima ONG a istituire missioni SAR di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo.

L’intervista è stata condotta da Michel Caillouēt, ex ambasciatore dell’UE e componente di New Europeans.

MC: Nel 2014 la creazione di MOAS. Cosa vi ha motivato a prendere questa decisione? Cosa hai imparato da questa esperienza nell’ambito umanitario? Quali sono state le principali sfide da affrontare?

RC: Insieme a mio marito Christopher abbiamo deciso di fondare MOAS in risposta al silenzio che ha seguito la tragica morte di centinaia di persone annegate al largo della costa dell’isola di Lampedusa nell’ottobre 2013. Abbiamo sentito il  dovere civile di fare qualcosa, di salvare la vita delle persone costrette ad affrontare le pericolose rotte del Mediterraneo per fuggire dalla violenza, dalla povertà e dalle persecuzioni.

Nel 2013 abbiamo fondato MOAS come organizzazione per la ricerca e il salvataggio avvalendoci di un team di esperti e di metodi innovativi grazie all’uso di strumenti tecnologici.

Dopo aver cercato e trovato un’imbarcazione ci siamo occupati di trasformarla, di attrezzarla rendendola adeguata alle operazioni SAR spostandoci con una traversata transatlantica dalla Virginia, negli Stati Uniti, a Malta.

Nell’agosto del 2014 abbiamo preso il mare divenendo la prima organizzazione SAR non governativa nel Mediterraneo Centrale fornendo un modello per la ricerca e il salvataggio per la società civile e le altre organizzazioni che si sono susseguite.

Tra il 2014 e il 2017, durante le missioni SAR nel Mediterraneo centrale e nel Mar Egeo, abbiamo soccorso più di 40.000 persone.

L’insegnamento che, purtroppo, ho tratto dall’impegno nell’ambito umanitario è l’aver preso consapevolezza di quanta poca umanità ci sia stata negli ultimi anni.

Il primo ostacolo che abbiamo dovuto affrontare è stato trovare una bandiera per la nave, poiché tutti gli Stati europei erano riluttanti a concederci la loro bandiera. Le missioni SAR condotte da un’organizzazione civile erano, in quel periodo, qualcosa di cui nessuno aveva mai sentito parlare.

La difficoltà nel far comprendere alle persone e ai media cosa stava succedendo nel Mediterraneo e cosa stavamo facendo con la nostra missione ha costituito un ulteriore ostacolo.

La nostra volontà, inoltre, era quella di intervenire per superare la mancanza di attenzione da parte dei media e della consapevolezza da parte della società civile in merito a ciò che stava accadendo in mare. Questo è il motivo per cui abbiamo condiviso le nostre immagini e invitato a bordo i protagonisti del mondo dell’informazione internazionale documentando le missioni SAR e assistendo alle drammatiche condizioni delle persone che salvavamo in mare.

Volevamo creare empatia e umanizzare la catastrofe che stava avvenendo nei nostri mari, mostrare come esseri umani coloro che erano considerati semplici numeri.

In questo modo MOAS ha introdotto un cambiamento significativo nella narrazione della questione migratoria nel Mediterraneo e ha stimolato una maggiore attenzione nei confronti delle crisi in corso nel mondo.

A causa delle sfide legislative della legge Bossi-Fini e dei Decreti sicurezza, della criminalizzazione delle missioni SAR nel Mediterraneo e dell’introduzione del codice di condotta che riconosce l’autorità della guardia costiera libica e ne impone il doppio coordinamento abbiamo capito che non potevamo far parte di un sistema indiretto di respingimento e abbiamo interrotto le missioni SAR.

Oggi continuiamo a portare avanti la nostra campagna di advocacy per la creazione di vie sicure e legali in tutto il mondo.

MC: Come ambasciatore dell’UE in Birmania, alla fine degli anni ’90, ho partecipato alla fornitura di aiuti umanitari alla popolazione Rohingya. Da allora, però, la situazione è peggiorata.

Nel 2017 MOAS ha avviato una nuova azione umanitaria per i Rohingya. A quali conclusioni sei giunta a seguito della tua esperienza?

Uno degli attuali leader birmani, Daw Aung San Suu Kyi, quando faceva parte dell’opposizione, ha ricevuto un premio Nobel. Da allora, però, ha assunto una posizione ambigua. Cosa ne pensi del suo atteggiamento?

Alcuni Paesi asiatici hanno mostrato solidarietà nei confronti della situazione catastrofica in cui si trovano i Rohingya?

RC: Nell’ottobre 2015, MOAS ha deciso di estendere le proprie operazioni nel Mare delle Andamane. Abbiamo lanciato una missione di osservazione e monitoraggio con la nave SAR Phoenix. Lo scopo delle operazioni MOAS nel Mare delle Andamane era quello di comprendere le cause che inducevano un elevato numero di rifugiati Rohingya fuggire da persecuzioni e condizioni disumane.

Nel settembre 2017, a seguito della fuga dal Myanmar verso il Bangladesh di oltre 742.000 Rohingya, nel disperato tentativo di salvare le loro vite dalla violenza e dalle persecuzioni, abbiamo deciso di intervenire con il nostro modello operativo dinamico.

Da allora siamo in Bangladesh. Abbiamo fornito cure mediche urgenti e assistenza a 90.000 persone. Nel 2019 ci siamo resi conto del disperato bisogno di una formazione per le situazioni di emergenza, soprattutto nei periodi delle stagioni dei monsoni.

MOAS ha risposto fornendo un corso per la sicurezza in acqua, il Flood And Water Safety Training, ai Rohingya e ai volontari della comunità ospitante. Lavorando a stretto contatto con i nostri partners, abbiamo sviluppato all’interno della comunità la capacità di rispondere alle catastrofi naturali.

Da quando abbiamo avviato le nostre operazioni in Bangladesh, abbiamo constatato in prima persona le condizioni disperate e le atroci violenze subite dei rifugiati Rohingya che attraversavano il Myanmar verso il Bangladesh. La gran parte di loro sono donne e bambini; molti uomini Rohingya sono stati vittime del genocidio condotto dai militari del Myanmar.

Per quanto riguarda Daw Aung San Suu Kyi, senza voler dare alcun giudizio nei suoi confronti, non posso che affermare che le azioni parlano più delle parole. Sono rimasta allibita nel vedere un anno fa all’Aja un premio Nobel per la pace difendere il Myanmar dalle accuse di abusi nei confronti dei Rohingya.

Non possiamo tollerare un atteggiamento di indifferenza di fronte al genocidio e mi chiedo perché il suo premio Nobel non sia stato revocato. MOAS continua a ribadire la necessità di una collaborazione regionale per il raggiungimento dell’unica possibile soluzione, il riconoscimento della nazionalità ai Rohingya da parte del Myanmar e il diritto a rientrare nel Paese. Durante questo processo sarà necessario garantire l’assistenza da parte delle organizzazioni internazionali.

I Paesi confinanti e il Bangladesh ospitano i rifugiati Rohingya da 30 anni. Oltre alla crescente crisi dei rifugiati Rohingya, tuttavia, sono costretti ad affrontare le già precarie condizioni interne. Il Bangladesh, con il più alto numero di rifugiati Rohingya, è anche uno dei Paesi più esposti alle catastrofi naturali. Dal settembre del 2017, oltre 8 milioni di persone sono state colpite dalle inondazioni. Mentre il Paese ha compiuto progressi significativi nella riduzione della povertà, l’altissima densità abitativa e la vulnerabilità ai cambiamenti climatici devono fare i conti con la scarsità delle risorse.

Questa situazione già difficile si aggrava quando i rifugiati arrivano con pochissimi beni e quindi devono fare affidamento sull’assistenza umanitaria per cibo e alloggio. L’International Organisation of Southeast Asian countries (ASEAN) potrebbe svolgere un ruolo più importante nel sostenere il Bangladesh. Sebbene il Bangladesh non sia parte di questa associazione, svolge un ruolo significativo nel sostenere l’onere della crisi dei rifugiati, sollevando così le altre nazioni. Per questo motivo, gli abitanti del Bangladesh trarrebbero grande beneficio da un ulteriore sostegno regionale.

MC: L’UE con il suo approccio intergovernativo non è stata in grado di stabilire una politica di immigrazione unita e coerente.

Cosa si dovrebbe fare per migliorarla e porre fine a queste catastrofi umanitarie ricorrenti? Ritieni che Frontex stia svolgendo correttamente il proprio ruolo?

RC: Tra gennaio e giugno di quest’anno 22.246 persone hanno raggiunto l’Europa attraverso la rotta del Mediterraneo. Negli ultimi 6 mesi, 248 persone sono morte per tentare questa pericolosa traversata. I conflitti in corso e le violazioni dei diritti umani in Libia hanno contribuito al continuo afflusso di arrivi in Europa. Le persone cercano disperatamente di fuggire dal Paese.

Nel frattempo, la siccità causata dal riscaldamento globale sta spingendo le persone dell’Africa sub-sahariana a spostarsi verso nord.

La situazione nel Mediterraneo sta diventando sempre più complessa, i confini europei vengono chiusi e la possibilità di movimento delle persone sta diventando sempre più limitata. La maggior parte dei governi si sta concentrando sui problemi interni e le questioni relative ai migranti e ai rifugiati vengono gravemente trascurate.

La crisi migratoria è diventata il tema principale di questo secolo. Centinaia di persone continuano a rischiare la vita tentando di attraversare il Mar Mediterraneo, mentre l’Europa chiude i propri occhi. Tale indifferenza non può più essere tollerata. Non possiamo permetterci di adottare un approccio individuale nei confronti di un problema globale, come ha fatto il Regno Unito con la BREXIT. Senza una risposta unitaria non potremo affrontare la pressione dell’attuale crisi migratoria.

Nessuno sta cercando di risolvere i problemi dei rifugiati e degli altri migranti. Nel frattempo si assiste a un incremento delle politiche anti-immigrazione, che hanno portato alla criminalizzazione delle missioni SAR nel Mediterraneo.

MOAS da tempo invoca l’implementazione delle vie sicure e legali in alternativa alle pericolose rotte illegali.

Nel frattempo, esortiamo i Paesi europei a istituire meccanismi efficaci e cooperativi di ricollocazione per i migranti soccorsi in mare, scongiurando i lunghi tempi e le tattiche politiche, mentre le persone vulnerabili e coloro che le salvano aspettano disperatamente di ottenere un porto sicuro.

Le missioni Frontex non sono nate per la ricerca e il salvataggio. Frontex non è Mare Nostrum e l’agenzia non è la risposta alle migliaia di rifugiati che quest’anno hanno tentato di accedere in Europa. Non esiste una politica migratoria europea unitaria e dobbiamo riconoscere che Frontex ha la sola funzione di controllare le frontiere. Non è stato creato per salvare la vita delle persone. Frontex, però, ha la capacità di salvare vite umane, ancora più delle ONG, ma sarebbe necessario un nuovo mandato affinché la SAR diventi l’obiettivo primario.

MC: L’Europa nel suo insieme sta vivendo la pandemia di Covid19 che colpisce gravemente anche le popolazioni di migranti e rifugiati. L’opinione pubblica, però, sembra essere indifferente.

Cosa dovremmo fare? In generale, cosa dovrebbe fare l’Europa per pianificare in anticipo i movimenti migratori causati dalla crisi economica e dai cambiamenti climatici? Come possiamo evitare nuove catastrofi umanitarie?

RC: In una situazione di pandemia come quella che stiamo affrontando al momento è naturale che gli individui pensino a se stessi. È importante rendersi conto, però, che i rifugiati, che stanno già affrontando una moltitudine di sfide quotidiane, avvertono in modo particolarmente forte l’impatto della crisi.

La pandemia di COVID19 ha avuto un impatto senza precedenti sulle restrizioni alle frontiere. A metà aprile, almeno tre Paesi su quattro, che ospitano il 91% della popolazione mondiale, avevano imposto una qualche forma di chiusura delle frontiere per rallentare la diffusione del virus.

Queste restrizioni hanno reso ancora più difficile la possibilità di ottenere sicurezza e trovare protezione per le persone in fuga da povertà, persecuzioni e conflitti.

Il COVID19 ha messo in evidenza l’emarginazione a cui sono soggetti i migranti e i rifugiati. Esperti della migrazione hanno avvertito che alcuni governi stanno approfittando della pandemia per amplificare le politiche anti-migratorie e per trascurare i loro obblighi legali nell’assistere le persone in difficoltà.

Dei 167 paesi che hanno chiuso parzialmente o integralmente i loro confini a causa del COVID19, 57 non hanno fatto alcuna eccezione per i richiedenti asilo.

Il virus è stato utilizzato come giustificazione per bloccare le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Il governo italiano e quello maltese all’inizio di aprile hanno dichiarato i loro porti chiusi perché non sicuri allo sbarco delle persone soccorse in mare.

Urge che l’Europa implementi le vie sicure e legali per garantire canali sicuri per le persone bisognose di protezione internazionale affinché le persone non siano costrette a mettere a rischio la propria vita nelle mani dei trafficanti. Senza un accesso sicuro e legale alla protezione, i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo e le persone in cerca di salvezza continueranno ad essere in balia dei trafficanti di esseri umani e a rischiare la vita in viaggi sempre più pericolosi. L’implementazione di percorsi sicuri e legali per raggiungere l’Europa è quindi la chiave per prevenire queste tragedie e per fornire soluzioni accessibili a tutti coloro che si trovano in situazioni difficili. In ogni caso, un approccio strutturato, e non emergenziale, sarebbe molto più sicuro per le persone e molto più economico per la comunità internazionale e per i Paesi ospitanti che sarebbero in grado di preventivare, coordinare le risposte e ottimizzare i servizi. Ciò comporterebbe un minor spreco di risorse a causa dell’elevato costo delle risposte emergenziali. Inoltre, percorsi sicuri e legali consentono un migliore monitoraggio e gestione delle persone prima dell’arrivo aumentando la sicurezza dei Paesi ospitanti. Un approccio che consentirebbe una maggiore integrazione.

MC: Come imprenditrice, credi nel ruolo positivo che la società civile europea potrebbe svolgere nel contribuire a risolvere le sfide dell’immigrazione e il problema dei rifugiati.

Quali azioni potrebbero essere prese in considerazione? Un’Europa più unita e umana potrebbe aiutare?

RC: La società civile europea svolge un ruolo importante nel contribuire a risolvere le sfide dell’immigrazione e della cura delle comunità più vulnerabili. Anche i cambiamenti su piccola scala possono avere un impatto significativo.

In risposta alla pandemia di COVID19, ad esempio, alla fine di marzo, MOAS ha invitato i volontari di Malta a realizzare mascherine in cotone fatte in casa per le persone più vulnerabili dell’isola, inclusi rifugiati e richiedenti asilo.

È stato fondamentale includere le imprese locali maltesi. Questo progetto non riguardava esclusivamente la fornitura di mascherine ma intendeva diffondere un messaggio di solidarietà ai rifugiati e ai richiedenti asilo sull’isola.

Lo sforzo dell’intera comunità è stato estremamente importante. In un periodo in cui l’intolleranza e il razzismo sembrano diffondersi in maniera preoccupante, abbiamo voluto mostrare ai più vulnerabili la solidarietà dell’intera comunità e non soltanto di una organizzazione umanitaria.

La risposta che abbiamo ricevuto è stata davvero stimolante. Ci ha mostrato quanto possa essere cruciale la comunità per le questioni umanitarie. Un’azione che può comportare cambiamenti concreti nell’atteggiamento dei singoli individui nei confronti dell’immigrazione e che può contribuire a dare speranza a coloro che si trovano in condizioni di vulnerabilità.

https://neweuropeans.net/article/3332/interview-director-migrant-offshore-aid-station-regina-catrambone?fbclid=IwAR3AFEmvG6NxAwUJGSHItS70LQm3NurzlPED75N7Ts1nd53jt1ihZ-ZBN-Y