Lo scorso dicembre è stato reso pubblico il report delle NU sulla migrazione internazionale che ha messo in luce alcuni elementi fondamentali per discutere razionalmente di un fenomeno così di attualità come i flussi migratori. Il report si occupa dei “migranti internazionali” di cui dà una definizione come “persone che vivono in un paese diverso da quello di nascita”. Dunque, io stessa sono una migrante internazionale visto che da anni vivo fuori dall’Italia.

Molti aspetti che emergono dal report li ho trattati più volte, ma vale la pena ricordarli. Innanzitutto, viene messa in evidenza l’importanza della migrazione da cui traggono beneficio i paesi di arrivo sia perché spesso i migranti colmano lacune nel mercato del lavoro, sia perché si possono rivelare brillanti imprenditori che generano profitti e posti di lavoro. In entrambi i casi, il loro apporto in termini di tasse e contributi è fondamentale. Dai dati a livello mondiale emerge che la maggior parte è in età utile per lavorare: nel 2017 il 74% di essi aveva un’età compresa fra i 20 e i 64 anni, mentre chi ha meno di 20 anni tende ad essere poco rappresentato. Eppure, sono anche i primi a essere tagliati fuori dal mercato del lavoro in caso di recessione economica a causa della fragilità della loro posizione, senza contare che in tantissimi sono costretti ad accettare paghe ridotte e condizioni di lavoro peggiori dei cittadini del paese in cui si trovano. A questo si aggiunge il pericolo altissimo di violazioni dei diritti umani, abusi, discriminazioni, tratta e riduzione in schiavitù che annulla ogni possibile beneficio derivante dalla migrazione stessa che in sé potrebbe essere una “esperienza che fortifica” stando allo stesso report.

Emerge anche che a livello mondiale a fine 2017 si registravano 258milioni di migranti, 10 mila in più rispetto al 2015 e addirittura 49% in più rispetto al 2000, e in questi 17 anni sono stati i paesi a reddito alto ad assorbirne la maggior parte. Rispetto alle tendenze riportate, l’Asia ha accolto il più alto numero di migranti internazionali (30 milioni), il cui numero complessivo a livello globale è cresciuto più velocemente della popolazione mondiale per intero. Questo significa che, oltre ad essere un fattore dinamico per l’economia e la cultura di una comunità, i migranti contrastano anche l’invecchiamento della nostra società. Emerge, ad esempio, che in uno scenario privo di migrazioni “il declino sarebbe anche più forte e inizierebbe prima fra il 2015-2020”, mentre con il ritmo attuale le tendenze migratorie non riuscirebbero a compensare il rapporto fra decessi e nascite a partire dal 2020-2025.

Bambini in un campo di profughi Rohingya in Bangladesh dove attualmente portiamo assistenza medica e umanitaria

L’Asia, però, è anche il luogo di origine della più ampia fetta di persone che vivono fuori dalla propria regione di nascita: nel 2017 42milioni di persone nate in Asia vivevano altrove e fra le principali “diaspora populations”, al terzo posto troviamo il Bangladesh da cui sono partiti in 7,5 milioni. Fra questi in 9 mila sono giunti in Italia via mare, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno che colloca quella bengalese al quarto posto come nazionalità di arrivo, a conferma che è assurdo affrontare i flussi di migratori con un criterio di prossimità. Dobbiamo, infatti, ricordare che lo sfollamento transfrontaliero è in costante aumento, mentre a fine 2016 il numero totale di rifugiati e richiedenti asilo rappresentava il 10% della popolazione globale di migranti internazionali. Negare questa realtà significa voler rimanere ciechi e sordi di fronte a un fenomeno epocale che comunque ha un impatto sulle nostre vite quotidiane.

Proprio alla luce degli ultimi eventi e della catastrofe umanitaria in corso al confine fra Myanmar e Bangladesh, oltre al mutato ambito operativo del Mediterraneo, abbiamo deciso di concentrare mezzi e risorse in Sud-Est asiatico. L’esodo forzato di oltre 655.500 Rohingya a partire dal 25 Agosto ha rappresentato una sfida enorme per il Bangladesh che, oltre ad essere un paese a medio-basso reddito, è esposto a disastri naturali e alti tassi di povertà endemica. Eppure, non ha mai minacciato la chiusura delle frontiere. Da settembre  MOAS è attiva sul campo con due primary health centre dette Aid Station per portare assistenza medica e aiuti umanitari alla popolazione Rohingya insediatasi a Shamlapur e Unchiprang e da ottobre a fine dicembre in 30mila hanno beneficiato delle nostre cure.

Chiudere gli occhi di fronte al dolore e alle violazioni che accompagnano i flussi migratori incontrollati ne aumenta solo i rischi. Senza una presa di coscienza reale a tutti i livelli -dai cittadini alle istituzioni- sarà impossibile costruire un mondo di pace dove vengano tutelati i diritti e la dignità delle persone.