Doaa, Nadine, Fatema, Caroline, Fatimata, Salima, Jhuma.

Sono solo alcune delle donne che ho conosciuto durante le tante missioni MOAS a partire dalla sua fondazione nel 2014. Di molte di loro conservo solo le storie, di altre ricordo lo sguardo spaurito o speranzoso, di altre ancora custodisco ogni dettaglio del tempo trascorso insieme. Di tutte voglio celebrare il coraggio e la forza d’animo.

Doaa aveva 26 anni quando è stata salvata dal nostro team MOAS durante un difficile salvataggio nel Mediterraneo. Era col marito Mahmood, 27 anni, e la loro bambina Rital di soli due mesi. Dooa viene dalla Siria e nel suo paese era un avvocato prima che la guerra distruggesse ogni certezza e la costringesse a andare via, divenendo una dei milioni di profughi che hanno oltrepassato il confine siriano per mettersi in salvo. Dooa e Mahmood mi raccontano il sogno della pace mentre guardano la loro neonata che dorme tranquilla fra le braccia della madre nella clinica della nave su cui ci troviamo.

A bordo quel giorno c’era anche Nadine che a soli 22 anni aveva già conosciuto la terribile durezza della vita. Partita dal Camerun nel 2013 in cerca di un futuro migliore, ha attraversato il Niger prima di giungere in Libia. Una volta scoperta la gravidanza, il suo compagno l’ha abbandonata. Nadine è rimasta sola con la piccola Hope che le cresceva in grembo dentro un campo di detenzione dove, priva di qualsiasi assistenza, ha partorito e tagliato da sola il cordone ombelicale che la legava alla sua bambina. Entrambe sono state visitate per la prima volta dal dottore responsabile del post-soccorso. Da donna e madre, provo un dolore immenso ascoltando le parole di Nadine.

Fatimata e Salima, invece, sono state salvate e trasferite a bordo insieme ad altre 26 persone. Queste due giovani donne di 27 e 18 anni provenienti dalla Guinea Conakry sono divenute amiche durante il tragico viaggio che hanno affrontato insieme e che le ha condotte a bordo dell’imbarcazione fatiscente su cui rischiavano di perdere la vita prima di essere tratte in salvo. L’importanza degli amici in un momento così tragico della vita, la consapevolezza di poter contare su qualcuno e la purezza di questi sentimenti testimoniano l’immenso valore dell’amicizia.

Da settembre MOAS ha concentrato mezzi e risorse in Bangladesh per mitigare la sofferenza del popolo Rohingya ingiustamente perseguitato e bersaglio di gravissime discriminazioni e violenze tanto da arrivare a parlare di “pulizia etnica” e sollevare accuse di “genocidio” da parte di tre donne insignite del premio Nobel per la pace dopo la loro visita nei campi profughi. Proprio in Bangladesh dallo scorso 25 agosto sono giunte quasi 700mila persone, fra cui circa il 60% è di sesso femminile. Donne e ragazze, insieme ai bambini, costituiscono i gruppi più numerosi e vulnerabili all’interno della comunità Rohingya.

Donne e ragazze aspettano di essere visitate in una Aid Station in Bangladesh

Durante le varie permanenze per monitorare gli sviluppi della missione in sud-est asiatico, ho incontrato tante donne che mi hanno aperto le porte delle proprie case e dei propri cuori e ascoltando le loro storie ho deciso di rendere nuovamente omaggio alla loro forza, al loro coraggio e alla loro resilienza. Ricordo Jhuma che ha 40 anni e ho conosciuto nel campo di Shamlapur dove viveva con altri 8 familiari quando mi ha raccontato come fosse la vita in Myanmar: abusi, discriminazioni, limitazioni della libertà di movimento che impedivano di essere autosufficienti. I suoi figli ogni giorno erano esposti ad abusi da parte della popolazione locale e non avevano alcun accesso ai servizi sanitari: la vita era mera sopravvivenza.

Con Jharu invece discutiamo del controverso accordo per il rimpatrio di molti profughi Rohingya dal Bangladesh al Myanmar e mi spiega chiaramente come non tornerebbe mai indietro a meno che non ci fossero delle organizzazioni internazionali a vigilare sul rispetto dei diritti umani. Jharu mi racconta lo stesso dramma di Jhuma, il dolore di aver visto morire il marito davanti ai propri occhi e la propria casa bruciare mentre fuggivano per mettersi in salvo. Mi confessa la difficoltà nel gestire una famiglia da sola con due figlie adolescenti e una ancora piccola di soli 8 anni. Per questo, la seconda volta che vado a trovarla ha cambiato rifugio in modo da essere meno a rischio di cadere in mano ai trafficanti.

Mi tornano in mente gli occhi lucenti anche Fatema, una ragazzina di soli 15 anni costretta a diventare subito adulta a causa dei tragici eventi vissuti. Durante l’esodo, nel caos della fuga dal Myanmar, ha perso i genitori e un fratello è morto. Da allora si prende cura di tre fratellini e una nipotina la cui madre è morta di parto subito dopo l’arrivo a Unchiprang. Stesso nome, altra storia per una ragazza di soli 25 anni che ha ricevuto le nostre cure dopo che il team MOAS ha visitato la bambina che aveva messo al mondo solo una settimana prima. La nonna della neonata ha raccontato ai nostri medici che la figlia era stata chiusa nella loro casa data alle fiamme prima di riuscire miracolosamente a salvarsi, nonostante le gravissimi ustioni. Arrivata con la famiglia a Unchiprang, il marito l’ha abbandonata con enormi traumi fisici e psicologici e la responsabilità di una nuova vita di cui prendersi cura.

Da anni sono a fianco delle donne che, sole o con le proprie famiglie, vengono costrette a intraprendere viaggi atroci per mettersi in salvo e cerco di dar voce alle loro storie di coraggio e resilienza affinché nessuno possa dimenticarle. Per questo nel giorno della Festa delle Donne ho voluto parlare di loro, chiamandole per nome e ricordando le loro preziose storie di umanità e speranza con l’augurio che possano realizzare il sogno più importante affinché tutte le donne costruiscano insieme un futuro di pace.

 

*Nota: il nome di ciascuna delle donne citate contiene il link per leggerne la storia