Lo scorso 15 ottobre ho partecipato al panel sui Corridoi Umanitari che si è svolto a Bologna nel quadro dell’evento Ponti di Pace 2018 organizzato da Sant’Egidio per discutere di migrazioni globali, persone e solidarietà.

Al tavolo con me Alberto Capannini, Oliviero Forti, Paolo Naso, Gian Carlo Perego, Daniela Pompei e Padre José Alejandro Solalinde Guerra hanno portato le proprie esperienze in anni di lavoro a sostegno dei migranti e dei rifugiati.

Più di altre occasioni, questa è stata speciale perché dal pubblico si è alzato un ragazzo, Alpha, che era stato salvato da MOAS nell’ottobre 2016 mentre ormai aveva perso ogni speranza. Prima di iniziare il panel avevo raccontato di come in quattro anni di eventi per rappresentare MOAS e la sua missione non avessi mai incontrato nessuna delle persone salvate. Due anni dopo il salvataggio che ha cambiato la vita di Alpha in fuga dalla Guinea Conakry, ci siamo incontrati e abbracciati a Bologna dove ha raccontato come la Comunità di Sant’Egidio lo abbia aiutato nel processo di apprendimento della lingua e di integrazione nella comunità di accoglienza. La sua storia spiega perfettamente l’importanza di unire salvataggi e follow-up affinché non si cada nella trappola della marginalizzazione, della discriminazione e dello sfruttamento.

*Alpha, il ragazzo della Guinea Conakry salvato da MOAS, e Daniela Pompei, referente di Sant’Egidio per i Corridoi Umanitari

Dopo aver fatto vedere un breve video che ripercorre genesi e sviluppi di MOAS, ho raccontato i risultati di un anno di Aid Station in Bangladesh per portare assistenza medico-sanitaria in seguito all’esodo senza precedenti di Rohingya perseguitati in Myanmar. Da ottobre 2017 a agosto 2018, oltre 87.000 bambini, donne e uomini Rohingya e bengalesi sono stati visitati dai nostri team medici, in alcuni casi per la prima volta in vita loro. Ho voluto ricordare due delle tante persone che ho conosciuto durante le missioni MOAS: Yussuf, 65 anni, siriano salvato in mare e Jhanu, di circa 40 anni, madre Rohingya di sette figli che ha visto uccidere il marito dai militari birmani nell’agosto 2017. Yussuf, rispondendo alla mia domanda sul perché avesse deciso di intraprendere un viaggio così pericoloso, mi rispose semplicemente “Se vedi che la tua casa inizia a bruciare, ti butti dalla finestra anche se non hai la certezza che sopravviverai”. Jhanu, invece, ha condiviso con me la sua paura di crescere delle figlie adolescenti in campi insicuri e sovraffollati, la voglia di costruire il futuro insieme a quanto rimaneva della sua famiglia senza arrendersi e i dubbi su eventuali rimpatri. E prima di salutarci mi ha chiesto di raccontare di lei, di portare in giro la sua testimonianza e far conoscere il dramma dei Rohingya.

Subito dopo ha preso la parola Oliviero Forti di Caritas Italiana con cui abbiamo collaborato durante le precedenti missioni SAR. Oliviero ha raccontato come la Caritas fosse storicamente conosciuta per le attività di accoglienza e di come abbia ampliato i propri orizzonti coi corridoi umanitari perché “la storia ce lo chiede”. L’obiettivo delle nuove attività riguarda soprattutto la creazione di vie sicure e legali per salvare le persone: oltre ai corridoi umanitari, ha infatti citato le evacuazioni dalla Libia, la concessione di visti umanitari e il rafforzamento delle politiche di ricongiungimento familiare. Consapevole delle tantissime persone che hanno bisogno di aiuto, “sappiamo di non essere la soluzione alla migrazione globale, ma vogliamo lanciare un messaggio politico preciso”, ha concluso. Quel messaggio è lo stesso di chiunque si impegni giornalmente a fianco di migranti e rifugiati: una alternativa è possibile, usiamo gli strumenti a disposizione per salvare le persone e costruire società inclusive. Proprio quelle società inclusive che sono state ricordate da Daniela Pompei come referente per i corridoi umanitari di Sant’Egidio e che possono essere realizzate con una gestione oculata dei flussi migratori.

Infine, voglio ricordare le parole di Padre Solalinde che si occupa dei migranti in transito da Messico a Stati Uniti, altra frontiera mortale dove si registra una recrudescenza delle violenze contro i migranti. Mi hanno colpita le sue parole che denunciano uno sfruttamento così simile a quello documentato alla frontiera del Mediterraneo e nei campi Rohingya. “I trafficanti di morte approfittano della migrazione forzata e commerciano con la vita umana. Se i poveri non hanno nulla, diventano loro stessi merce”. Ascoltandolo, mi tornano in mente le testimonianze delle persone salvate in mare o assistite sulla terra in Bangladesh: nessuna frontiera sarà mai invalicabile per una madre che vuol mettere in salvo la propria famiglia.

Ma allora qual è la soluzione a una situazione che sembra volgere al peggio? L’empatia, l’umanità, il corridoio umanitario globale che Padre Solalinde definisce come un movimento di solidarietà globalizzata, come un insieme di iniziative personali e istituzionali e un luogo sociale immaginario di incontro. La soluzione sta nel costruire ogni giorno ponti di pace, come quelli che avviati a Bologna insieme ai nostri amici di Sant’Egidio.